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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE / Cartelli e settore degli smart chip – L’Avvocato Generale Wathelet si pronuncia in merito all’impugnativa da parte di Infineon avverso la decisione del Tribunale dell’UE con cui erano state confermate le maxi-sanzioni inflitte per uno scambio di informazioni illecito per oggetto

Lo scorso 12 aprile l’Avvocato Generale Melchior Wathelet (AG) si è pronunciato in relazione all’impugnazione proposta da Infineon Techonologies AG (Infineon o la ricorrente) avverso la decisione del Tribunale dell’UE del 15 dicembre 2016 con cui venivano confermate le maxi-sanzioni inflitte dalla Commissione europea (Commissione) ad Infineon (e Philips) per aver coordinato, dal 2003 al 2005, il loro comportamento sul mercato delle smart chip per carte nello Spazio Economico Europeo (SEE). Tale coordinamento, secondo quanto accertato dalla Commissione e successivamente confermato dal Tribunale, sarebbe stato realizzato tramite una rete di contatti bilaterali e di scambi di informazioni commercialmente sensibili, in particolare sui prezzi, la capacità produttiva e le future condotte sul mercato. Per un maggior approfondimento sui fatti in causa si richiama la nostra newsletter del 19 dicembre 2016.

L’AG concentra le proprie conclusioni dapprima sulla portata del controllo di legittimità, precisando che nel caso di specie la Commissione ha constatato l’esistenza di una infrazione unica e continuata e che il Tribunale – in tale contesto – ha ritenuto di poter controllare la legittimità della decisione controversa limitando il suo esame alla verifica della partecipazione della Infineon ad una o, eventualmente, a due discussioni anticoncorrenziali, durante ciascuno dei sopra citai anni. In particolare, Infineon, nella propria impugnativa, contesta al Tribunale di aver esaminato soltanto cinque degli undici contatti asseritamente illeciti constatati dalla Commissione, mentre essa li aveva contestati tutti. Sul punto, peraltro, la Commissione ritiene che, poiché la ricorrente non ha contestato la conclusione secondo cui i prezzi dei chip per carte erano determinati, in linea di principio, su base annua, il Tribunale potesse limitarsi a verificare che la ricorrente avesse partecipato ad almeno un contatto anticoncorrenziale all’anno nel periodo compreso tra il 2003 e il 2005. In altre parole sarebbe sufficiente che i risultati economici dei contatti anticoncorrenziali proseguissero i loro effetti oltre la data in cui hanno avuto luogo. Ciò posto, il Tribunale non sarebbe stato tenuto a giustificare la propria scelta dei cinque contatti da esso esaminati, né l’assenza di esame della partecipazione della ricorrente agli altri sei contatti.  Al riguardo, l’AG precisando che poiché il Tribunale aveva rilevato – in premessa alla scelta di esaminare la partecipazione della Infineon ad una o eventualmente a due discussioni anticoncorrenziali – che la ricorrente non contestava la valutazione della Commissione secondo cui i prezzi erano determinati, in linea di principio, su base annua non  ravvisa alcun “snaturamento delle caratteristiche dell’infrazione”. Ad avviso dell’AG, dunque, il Tribunale non sarebbe incorso in errore quando nella fase del controllo di legittimità ha limitato il proprio esame a cinque discussioni anticoncorrenziali ripartite nei tre anni del periodo dell’infrazione, precisando che “il fatto che un’impresa che abbia partecipato a tutti gli elementi costitutivi di un’intesa o che abbia svolto un ruolo secondario negli aspetti ai quali ha preso parte non è rilevante per dimostrare l’esistenza di un’infrazione da parte sua, poiché occorre prendere in considerazione tali elementi solo in sede di valutazione della gravità della sanzione…”.

Nel valutare invece il sindacato esteso al merito, l’AG non può fare a meno di rilevare che il Tribunale non ha preso in considerazione in maniera giuridicamente corretta tutti i fattori essenziali per valutare la gravità del comportamento addebitato a Infineon e non ha risolto esaurientemente le questioni poste dal complesso degli argomenti invocati dalla ricorrente in questione e diretti alla revoca o alla riduzione dell’ammenda. In particolare, ad avviso dell’AG, il Tribunale avrebbe verificato unicamente la partecipazione di Infineon a cinque discussioni anticoncorrenziali, mentre essa contestava in modo motivato il carattere illecito di undici contatti individuati dalla Commissione.

Infine, l’AG si pronuncia sull’importante questione relativa all’autenticità degli elementi di prova. Al riguardo preme precisare che Infineon, nella propria impugnativa, rimproverava al Tribunale di averle attribuito l’onere della prova della non autenticità di un messaggio di posta elettronica interno della Samsung (fornito peraltro da quest’ultima nell’ambito della richiesta di trattamento favorevole avanzata a seguito del fallito tentativo di settlement). Sul punto, l’AG dapprima procede ad effettuare una distinzione tra l’autenticità della prova e la sua credibilità precisando che “…la questione dell’autenticità di una prova si colloca necessariamente a monte della valutazione della sua credibilità: una prova non autentica non può essere considerata credibile quand’anche sembri tale…”, aggiungendo che “…spetta alla Commissione produrre la prova nelle infrazioni da essa accertate e raccogliere elementi di prova atti a dimostrare adeguatamente la sussistenza dei fatti costitutivi di una infrazione. Qualora sussista un dubbio nella mente del giudice, esso deve andare a beneficio dell’impresa destinataria della decisione che constata un’infrazione…”.

Applicando tali principi generali al caso di specie, l’AG ribadisce che in effetti in relazione al messaggio contestato, esistono diverse versioni stampate (differenti tra di loro) e che le perizie presentate da Infineon concludevano in sostanza che non era possibile affermarne l’autenticità. Su tali basi esso conclude che il Tribunale sia incorso in un errore di diritto, non avendo rispettato lo standard probatorio richiesto in materia di ammende per infrazione al diritto della concorrenza. L’AG contesta che a prescindere dalle differenze relative ad elementi essenziali del messaggio in questione, quali i destinatari e gli orari di invio, il Tribunale avrebbe dovuto valutare le perizie di Infineon e di conseguenza avrebbe dovuto escludere tale prova. Era onere della Commissione, infatti, dimostrare positivamente l’autenticità del messaggio di posta elettronica, ricorrendo, se del caso, alla perizia richiesta da Infineon.

Alla luce di tali elementi, l’AG conclude con la proposta alla Corte di annullare la sentenza del Tribunale del 15 dicembre 2016. Non resta che attendere la decisione dell’organo supremo.

Gloria Panaccione
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Cartelli e estradizione – La Corte di Giustizia conferma la legittimità dell’estradizione negli Stati Uniti di un manager italiano per aver partecipato ad un cartello

Con la sentenza del  10 aprile scorso nella causa C-191/16, la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CdG) si è pronunciata definitivamente nel primo caso riguardante l’estradizione negli Stati Uniti di un manager la cui società di appartenenza era stata condannata, sia in Europa sia negli Stati Uniti, per aver partecipato ad un cartello tra imprese costruttrici di tubi marini.

I fatti alla base della pronuncia in commento sono, in breve, i seguenti. Nel giugno 2013 il manager, cittadino italiano, veniva arrestato mentre faceva scalo all’aeroporto di Francoforte (Germania) sulla base di un mandato di arresto internazionale emesso dal Department of Justice americano. Nell’agosto dello stesso anno, gli Stati Uniti trasmettevano alla Germania la richiesta formale di estradizione. Quest’ultima veniva concessa, dopo una serie di (infruttuosi) ricorsi dello stesso manager, nel marzo 2014. Estradato così negli Stati Uniti, il manager ammetteva la propria colpevolezza nell’ambito del procedimento penale a suo carico e veniva condannato a una pena detentiva di due anni e ad una multa di 50.000 dollari.

Al momento della concessione dell’estradizione, il manager aveva proposto ricorso al Tribunale del Land di Berlino (il Giudice del Rinvio) al fine di far dichiarare la responsabilità della Germania per aver autorizzato l’estradizione negli Stati Uniti e ottenere così la condanna al risarcimento dei danni per violazione delle norme del diritto UE. In particolare, il manager sosteneva che l’articolo 16, paragrafo 2 della Costituzione tedesca, che stabilisce che “…nessun cittadino tedesco può essere estradato all’estero…”, ostava alla concessione, da parte della Germania, della sua estradizione, a causa del divieto ai sensi del diritto europeo di discriminazione effettuata in base alla cittadinanza (art. 18 TFUE).

La CdG, nel caso in commento, si è pronunciata su due questioni pregiudiziali. Con la prima, il Giudice del Rinvio chiedeva se una situazione come quella del caso di specie (riguardante quindi la richiesta di estradizione verso gli Stati Uniti ai sensi dell’accordo UE-USA (l’Accordo) di un soggetto arrestato in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza) rientrasse nell’ambito di applicazione del Diritto dell’Unione europea. Sul punto, la Corte ha dichiarato che la situazione in commento rientrasse nell’ambito di applicazione di tale diritto dal momento che il cittadino (ossia il manager arrestato) ha esercitato il suo diritto di circolare liberamente nell’Unione (avendo fatto scalo in Germania in occasione di un viaggio verso l’Italia)  e in quanto la richiesta di estradizione era stata effettuata nell’ambito dell’accordo UE-USA.

Ciò detto, alla Corte veniva chiesto se “…l’articolo 18 TFUE debba essere interpretato nel senso che esso osta a che lo Stato membro richiesto operi una distinzione, sulla base di una norma di diritto costituzionale, tra i suoi cittadini e i cittadini di altri Stati membri e che autorizzi l’estradizione di questi ultimi mentre non consente quella dei propri cittadini…”. La Corte ha innanzitutto dichiarato che tale questione va interpretata alla luce dell’Accordo, che prevede espressamente che “…uno Stato membro, quale Stato richiesto, ha la facoltà di addurre, a norma del trattato bilaterale di estradizione tra tale Stato e gli Stati Uniti d’America, un motivo di rifiuto dell’estradizione riguardo a una questione non disciplinata da detto accordo”.  Quanto al trattato di estradizione Germania‑Stati Uniti, questo consente agli Stati contraenti di non estradare i propri cittadini. Inoltre, l’art. 17 dell’Accordo consente, in linea di principio, “…che uno Stato membro riservi, sulla base vuoi di disposizioni di un accordo bilaterale, vuoi di norme del suo diritto costituzionale, una sorte specifica ai suoi cittadini nazionali vietando la loro estradizione…”.

Tuttavia, la Corte precisa che tale facoltà debba essere comunque esercitata conformemente al diritto dei trattati UE ed in particolare in materia di parità di trattamento e di libertà di circolazione dei cittadini dell’UE. Poiché la disparità di trattamento, prevista dalla norma costituzionale tedesca, nel consentire l’estradizione di un cittadino UE avente la cittadinanza di uno Stato membro diverso dallo Stato membro richiesto, si traduce, nei fatti, in una restrizione della libertà di circolazione, tale restrizione “…deve fondarsi su considerazioni oggettive e deve essere proporzionata all’obiettivo legittimamente perseguito…”.. Sul punto, la Corta ha ritenuto legittimo “…l’obiettivo di evitare il rischio di impunità delle persone che hanno commesso un reato…”, precisando che misure restrittive di una libertà fondamentale “…possono essere giustificate da considerazioni oggettive solo [….] nella misura in cui tali obiettivi non possano essere raggiunti mediante misure meno restrittive…”.

Secondo la Corte, nel caso di specie, l’unica valutazione che doveva essere fatta è se la Germania avesse potuto agire nei confronti del manager “…in maniera meno pregiudizievole per l’esercizio del suo diritto alla libera circolazione, prospettandone la consegna alla Repubblica italiana invece di estradarlo verso gli Stati Uniti…”. Di conseguenza, le autorità dello Stato membro di cui la persona è cittadino devono essere state preventivamente messe in condizioni di chiederne la consegna nell’ambito di un mandato d’arresto europeo. Solo qualora lo Stato membro non adottasse alcuna misura in tal senso, allora l’estradizione (in questo caso in USA) sarebbe legittima.

Come precisa la Corte, tale procedura sarebbe stata regolarmente seguita nel caso di specie, in quanto le autorità consolari italiane sono state tenute informate della situazione del manager prima dell’esecuzione della domanda di estradizione e non hanno emesso alcun mandato di arresto europeo.

Con la sentenza in commento sembrerebbe quindi chiudersi definitivamente questa vicenda, che ha visto il manager italiano scontrarsi con diversi giudici (e autorità) di diversi Paesi negli ultimi 8 anni. Riconoscendo la legittimità, anche sotto l’aspetto della (eventuale) discriminazione tra cittadini europei, dell’estradizione, la sentenza conferma i gravi rischi personali delle violazioni del diritto antitrust, che devono essere tenuti in grande considerazione in sede di compliance, soprattutto alla luce della loro crescente criminalizzazione in molte giurisdizioni.

Jacopo Pelucchi
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Antitrust e dawn raids – Il gruppo Alcogroup perde la propria chance di fermare l’istruttoria della Commissione per presunta intesa anticoncorrenziale in ragione di presunte irregolarità compiute dalla Commissione durante le ispezioni a sorpresa

Con sentenza dello scorso 10 aprile il Tribunale dell’Unione europea (Tribunale) ha ritenuto irricevibile il ricorso presentato da due società del gruppo Alcogroup avverso la decisione della Commissione di non sospendere le indagini in ragione delle presunte irregolarità compiute dalla Commissione stessa durante le ispezioni a sorpresa e lamentate da Alcogroup.

Ripercorrendo brevemente i fatti, Alcogroup era inizialmente sotto indagine in due procedimenti separati aperti per asserite condotte anticoncorrenziali. La prima, per sospetto cartello nel mercato del petrolio e dei biocarburanti, era poi stata chiusa senza accertamento di alcuna infrazione, la seconda per verificare se tre produttori di etanolo (tra cui Alcogroup) avevano manipolato i parametri di riferimento dell’etanolo pubblicati da un’agenzia di segnalazione dei prezzi è sempre pendente. Tale indagine era iniziata con ispezioni a sorpresa nel 2013 ed era proseguita con ulteriori ispezioni condotte nel 2014 e 2015.

Alcogroup aveva tentato di ottenere la sospensione di qualsiasi atto di indagine della Commissione nell’ambito dei procedimenti di cui sopra. Prima aveva chiesto direttamente alla Commissione di sospendere immediatamente le indagini dopo la conduzione dei dawn raids del marzo 2015, sostenendo che i funzionari della Commissione avessero gestito in maniera scorretta i documenti aventi ad oggetto scambi di informazioni tra la società ed i propri avvocati (anche aventi ad oggetto difese sviluppate nel contesto del primo procedimento istruttorio), quindi soggetti a riservatezza in ragione del legal privilege, ma la Commissione aveva rigettato tale richiesta. Quindi Alcogroup aveva contestato tale “rifiuto” della Commissione dinanzi al Tribunale ma, in via cautelare, la richiesta era stata respinta in quanto per i giudici l’impropria utilizzazione dei documenti raccolti durante le ispezioni (al tempo) era “meramente ipotetica”.

Alcogroup aveva quindi sostenuto – con procedimento separato - che - adottando ed eseguendo le decisioni impugnate - la Commissione aveva violato i suoi diritti di difesa e il diritto all’inviolabilità del domicilio, nonché i principi di buona amministrazione e di proporzionalità.

Per il Tribunale, Alcogroup potrà eventualmente instaurare un’azione per chiedere un risarcimento dei danni qualora ritenesse che i funzionari della Commissione abbiano violato il segreto cliente-avvocato a prescindere dall’esito finale delle indagini della Commissione, oppure potrà contestare la violazione dei propri diritti in sede di ispezione unitamente alla dell’eventuale impugnazione della decisione finale della Commissione a conclusione delle indagini (qualora venisse dimostrato che la Commissione ha illegittimamente acquisito documentazione coperta da legal privilege che ha pregiudicato Alcogroup). Ma l’impugnazione di Alcogroup - volta a chiedere di sospendere l’indagine della Commissione - è inammissibile.

Secondo il Tribunale, Alcogroup non ha dimostrato l’esistenza di alcun obbligo giuridico per la Commissione di prevedere, nella decisione di condurre delle ispezioni a sorpresa, delle precauzioni specifiche atte a tutelare i documenti coperti da legal privilege. Ed inoltre, tale decisione non ha prodotto in sé alcun effetto giuridico in capo ad Alcogroup. Inoltre, per il Tribunale il rifiuto opposto dalla Commissione di sospendere le indagini non può essere considerato come una decisione adottata a conclusione del procedimento amministrativo, essendo solo un atto preliminare. Parimenti, essa non può essere interpretata come una decisione formale di rigetto di una domanda di protezione di materiale confidenziale – specie in considerazione del fatto che i documenti in questione in realtà non sono stati materialmente utilizzati e non sono confluiti nel fascicolo della Commissione (nonostante i funzionari avessero potuto prendere visione – seppur sommaria – durante le ispezioni).

La sentenza in commento riporta in auge la delicatezza della conduzione delle ispezioni a sorpresa da parte dei funzionari delle autorità antitrust presso le sedi delle società indagate per presunte condotte anticoncorrenziali. Anche la dicitura legal privilege apposta sulla documentazione sembra non essere automaticamente idonea a censurare la regolarità dell’operato dei funzionari delle autorità. Viene dunque confermata la necessità di opporsi “in tempo reale” allo scrutinio - seppur sommario - della documentazione da parte dei funzionari. Proprio su questo, anche una recente pronuncia di una corte d’appello francese ha addirittura annullato (per violazione dei diritti di difesa) la decisione con cui l’autorità antitrust nazionale aveva ordinato le ispezioni a sorpresa in quanto i funzionari avevano impedito alla società indagata di contattare i propri legali esterni prima dell’inizio della raccolta dei documenti. Che sia questo l’ultimo baluardo a difesa delle società in sede di dawn raids?

Cecilia Carli
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Legal news / Trasporto passeggeri e servizi informatici - La Corte di Giustizia conferma che il servizio offerto da Uber ha natura di trasporto

Con sentenza dello scorso 10 aprile, nella causa C – 310/16, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CdG) si è pronunciata in via pregiudiziale sulla natura di Uber Pop, il servizio che – tramite un’applicazione fruibile via smartphone - mette in contatto conducenti non professionisti e persone che intendono effettuare spostamenti nell’ambito di aree urbane.

La vicenda all’origine della decisione da parte della CdG riguardava un giudizio instaurato in Francia nei confronti di Uber France SAS (Uber France) per pratiche commerciali ingannevoli, esercizio illegale della professione di tassista ed organizzazione illecita di un sistema di messa in contatto di clienti con persone che effettuano a titolo oneroso il trasporto di persone su strada mediante veicoli aventi meno di dieci posti in assenza di regolare autorizzazione. Proprio con riferimento a quest’ultima fattispecie, il Tribunal de grande instance de Lille ha inteso adire la Corte per chiedere sostanzialmente se Uber potesse essere qualificato come un servizio della società di informazione o un servizio di trasporto. Nel caso in questione, infatti, la soluzione a tale quesito appariva dirimente per stabilire se la disciplina francese che sanziona penalmente l’organizzazione di sistemi che mettono in contatto passeggeri e persone che esercitano l’attività di trasporto senza le autorizzazioni necessarie a tal fine dovesse essere considerata, ai sensi del diritto comunitario applicabile, ‘una regola relativa ai servizi della società dell’informazione’ (da notificare ex lege preliminarmente alla Commissione europea) o disciplinante il settore dei trasporti (e, in questo caso, essere esclusa da tale adempimento informativo).

La natura del servizio di Uber era già stata oggetto di una recente pronuncia della CdG (si veda, sul punto la Newsletter del 8 gennaio 2018) nell’ambito di una controversia in materia di concorrenza sleale in Spagna; in quel caso, la CdG aveva stabilito che Uber offre un servizio il cui elemento principale è il servizio di trasporto.

La sentenza oggi in commento, di fatto, si allinea al precedente appena richiamato, riportandone ampi estratti ed in particolare ricordando che Uber incide direttamente sulle prestazioni fornite dai conducenti “…fissando il prezzo massimo della corsa, ricevendo tale prezzo dal cliente per poi rimetterne una parte al conducente non professionista del veicolo, ed esercitando un certo controllo sulla qualità dei veicoli e dei loro conducenti nonché sul comportamento di quest’ultimi, suscettibile di portare, eventualmente, alla loro esclusione…”.

La CdG ha, quindi, concluso che il servizio offerto da Uber rientra nell’ambito dei servizi di trasporto e, pertanto, la summenzionata normativa francese, non rappresentando una regola di servizi della società di informazione, non è assoggettata all’obbligo di preventiva comunicazione alla Commissione europea, ai sensi della disciplina comunitaria applicabile.

Dal punto di vista del diritto della concorrenza, è, dunque, importante rilevare la posizione della CdG che ha inteso confermare integralmente il proprio orientamento, qualificando Uber come servizio di trasporto.

Filippo Alberti