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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione
Diritto della concorrenza UE / Concentrazioni e sospensione dell’operazione – Il gun jumping che non lo era: la Corte di Giustizia chiarisce la portata del c.d. “obbligo di standstill”
La Corte di Giustizia dell’Unione europea (CdG) si è pronunciata, nella causa C-633/16, in materia di gun jumping e violazione del c.d. “obbligo di standstill” nell’ambito di un rinvio pregiudiziale da parte di un tribunale danese.
La causa in questione prende avvio dalla decisione dell’autorità antitrust danese (l’Autorità) di sanzionare Ernst & Young (EY) per avere asseritamente violato il divieto di eseguire un’operazione di concentrazione prima che sia intervenuta la relativa autorizzazione da parte della competente autorità danese: il c.d. obbligo di standstill, analogo a quello previsto dal diritto della concorrenza dell’Unione Europea (ma assente nel diritto italiano).
Più nel dettaglio, nel novembre 2013 EY aveva concluso un contratto per l’acquisto del controllo di KPMG DK (società affiliata al network di società di revisione denominato KPMG International) (l’Accordo). Lo stesso giorno, KPMG DK recedeva dall’accordo di cooperazione con efficacia a decorrere dal 30 settembre 2014 (il Recesso). Nel frattempo, EY notificava la concentrazione all’autorità antitrust danese che concedeva la necessaria autorizzazione il 28 maggio 2014.
Nel dicembre dello stesso anno, l’autorità dichiarava che la società KPMG DK, recedendo dall’Accordo prima dell’approvazione della concentrazione, aveva violato l’obbligo di standstill, integrando così un’ipotesi di c.d. gun jumping. In particolare, secondo l’autorità, il Recesso era: (i) legato specificatamente alla concentrazione, (ii) irreversibile; e (iii) poteva produrre effetti sul mercato prima dell’approvazione della concentrazione.
La CdG, investita della questione stante la sostanziale identità della relativa normativa danese con quella europea, è stata chiamata a pronunciarsi sulla seguente questione, ossia “…se si possa considerare che il recesso da un accordo di cooperazione […] comporti la realizzazione di una concentrazione e se, al riguardo, sia rilevante che tale recesso abbia prodotto o no effetti sul mercato…”.
In primo luogo, la CdG ricorda che il controllo delle autorità antitrust in materia di concentrazioni è volto a garantire che operazioni di concentrazioni non comportino un pregiudizio durevole per la concorrenza. Per tale motivo, le imprese sono obbligate a notificare preventivamente le loro concentrazioni e la loro realizzazione deve essere sospesa fino all’adozione di una decisione definitiva.
La CdG prosegue ricordando che, nell’ordinamento europeo, “…si ha una concentrazione quando si produce una modifica duratura del controllo…” e, di conseguenza, “…la realizzazione di una concentrazione avviene non appena i partecipanti a una concentrazione attuino operazioni che contribuiscono a modificare in modo duraturo il controllo sulla [target]…”.
Pertanto, la realizzazione anche parziale di una concentrazione comporta la violazione dell’obbligo di standstill. Tuttavia, la CdG evidenzia come attività eseguite nell’ambito di una concentrazione che “…non siano necessarie ai fini di un cambiamento del controllo di un’impresa interessata dalla concentrazione […] non rientrano nell’articolo 7 del regolamento n. 139/2004 [che prevede appunto l’obbligo di standstill]…”. La CdG continua precisando come il fatto che tali attività possano produrre effetti sul mercato non è rilevante, in quanto, tra le altre cose, anche operazioni che non producono alcun effetto possono invece contribuire al cambiamento di controllo dell’impresa target e quindi tradursi in una violazione dell’obbligo di standstill.
Alla luce di ciò, la CdG ha concluso che l’articolo 7, par. 1, del Regolamento UE n. 139/2004 deve essere interpretato nel senso che “…una concentrazione è realizzata unicamente mediante un’operazione che, in tutto o in parte, in fatto o in diritto, contribuisce al cambiamento di controllo dell’impresa-obiettivo…”.
Nel caso di specie, il Recesso, nonostante fosse oggetto di un vincolo condizionale con la concentrazione in questione e quindi ne costituisse un elemento accessorio e preparatorio, e a prescindere dagli effetti che può avere prodotto sul mercato, “…non contribuisce, di per sé, alla modifica duratura di controllo dell’impresa-obiettivo…”. Infatti, la CdG evidenzia come il Recesso riguardasse uno solo dei partecipanti alla concentrazione (KPMG DK) e un terzo (KPMG International) e che con tale operazione EY non ha acquistato la possibilità di esercitare alcuna influenza su KPMG DK, che rimaneva una società indipendente, sotto il profilo antitrust, sia prima che dopo il Recesso.
Con la sentenza in commento, la CdG fornisce maggiore chiarezza (nonché sembrerebbe maggiore margine di manovra per l’imprese coinvolte) in merito a quali operazioni possono essere compiute prima dell’autorizzazione definitiva alla concentrazione da parte della competente relativa autorità antitrust. Tuttavia, anche alla luce dei recenti casi a livello europeo (si veda, ad esempio, la conferma della multa per 125 milioni di euro ad Altice commentata nella Newsletter del 2 maggio scorso), l’attenzione delle imprese verso misure che possono costituire un’ipotesi di gun jumping deve rimanere comunque alta.
Jacopo Pelucchi
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La causa in questione prende avvio dalla decisione dell’autorità antitrust danese (l’Autorità) di sanzionare Ernst & Young (EY) per avere asseritamente violato il divieto di eseguire un’operazione di concentrazione prima che sia intervenuta la relativa autorizzazione da parte della competente autorità danese: il c.d. obbligo di standstill, analogo a quello previsto dal diritto della concorrenza dell’Unione Europea (ma assente nel diritto italiano).
Più nel dettaglio, nel novembre 2013 EY aveva concluso un contratto per l’acquisto del controllo di KPMG DK (società affiliata al network di società di revisione denominato KPMG International) (l’Accordo). Lo stesso giorno, KPMG DK recedeva dall’accordo di cooperazione con efficacia a decorrere dal 30 settembre 2014 (il Recesso). Nel frattempo, EY notificava la concentrazione all’autorità antitrust danese che concedeva la necessaria autorizzazione il 28 maggio 2014.
Nel dicembre dello stesso anno, l’autorità dichiarava che la società KPMG DK, recedendo dall’Accordo prima dell’approvazione della concentrazione, aveva violato l’obbligo di standstill, integrando così un’ipotesi di c.d. gun jumping. In particolare, secondo l’autorità, il Recesso era: (i) legato specificatamente alla concentrazione, (ii) irreversibile; e (iii) poteva produrre effetti sul mercato prima dell’approvazione della concentrazione.
La CdG, investita della questione stante la sostanziale identità della relativa normativa danese con quella europea, è stata chiamata a pronunciarsi sulla seguente questione, ossia “…se si possa considerare che il recesso da un accordo di cooperazione […] comporti la realizzazione di una concentrazione e se, al riguardo, sia rilevante che tale recesso abbia prodotto o no effetti sul mercato…”.
In primo luogo, la CdG ricorda che il controllo delle autorità antitrust in materia di concentrazioni è volto a garantire che operazioni di concentrazioni non comportino un pregiudizio durevole per la concorrenza. Per tale motivo, le imprese sono obbligate a notificare preventivamente le loro concentrazioni e la loro realizzazione deve essere sospesa fino all’adozione di una decisione definitiva.
La CdG prosegue ricordando che, nell’ordinamento europeo, “…si ha una concentrazione quando si produce una modifica duratura del controllo…” e, di conseguenza, “…la realizzazione di una concentrazione avviene non appena i partecipanti a una concentrazione attuino operazioni che contribuiscono a modificare in modo duraturo il controllo sulla [target]…”.
Pertanto, la realizzazione anche parziale di una concentrazione comporta la violazione dell’obbligo di standstill. Tuttavia, la CdG evidenzia come attività eseguite nell’ambito di una concentrazione che “…non siano necessarie ai fini di un cambiamento del controllo di un’impresa interessata dalla concentrazione […] non rientrano nell’articolo 7 del regolamento n. 139/2004 [che prevede appunto l’obbligo di standstill]…”. La CdG continua precisando come il fatto che tali attività possano produrre effetti sul mercato non è rilevante, in quanto, tra le altre cose, anche operazioni che non producono alcun effetto possono invece contribuire al cambiamento di controllo dell’impresa target e quindi tradursi in una violazione dell’obbligo di standstill.
Alla luce di ciò, la CdG ha concluso che l’articolo 7, par. 1, del Regolamento UE n. 139/2004 deve essere interpretato nel senso che “…una concentrazione è realizzata unicamente mediante un’operazione che, in tutto o in parte, in fatto o in diritto, contribuisce al cambiamento di controllo dell’impresa-obiettivo…”.
Nel caso di specie, il Recesso, nonostante fosse oggetto di un vincolo condizionale con la concentrazione in questione e quindi ne costituisse un elemento accessorio e preparatorio, e a prescindere dagli effetti che può avere prodotto sul mercato, “…non contribuisce, di per sé, alla modifica duratura di controllo dell’impresa-obiettivo…”. Infatti, la CdG evidenzia come il Recesso riguardasse uno solo dei partecipanti alla concentrazione (KPMG DK) e un terzo (KPMG International) e che con tale operazione EY non ha acquistato la possibilità di esercitare alcuna influenza su KPMG DK, che rimaneva una società indipendente, sotto il profilo antitrust, sia prima che dopo il Recesso.
Con la sentenza in commento, la CdG fornisce maggiore chiarezza (nonché sembrerebbe maggiore margine di manovra per l’imprese coinvolte) in merito a quali operazioni possono essere compiute prima dell’autorizzazione definitiva alla concentrazione da parte della competente relativa autorità antitrust. Tuttavia, anche alla luce dei recenti casi a livello europeo (si veda, ad esempio, la conferma della multa per 125 milioni di euro ad Altice commentata nella Newsletter del 2 maggio scorso), l’attenzione delle imprese verso misure che possono costituire un’ipotesi di gun jumping deve rimanere comunque alta.
Jacopo Pelucchi
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Diritto della concorrenza Italia / Abuso di posizione dominante e mercato del gelato da impulso - Il Tar Lazio conferma la sanzione di oltre 60 milioni di euro irrogata dall’AGCM nei confronti di Unilever per abuso di posizione dominante
Con la sentenza n. 6080/2018, pubblicata lo scorso 31 maggio, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Tar) ha respinto integralmente il ricorso presentato da Unilever Italia Mkt. Operations S.r.l. (Unilever) avverso il provvedimento n. 26822/2017 (Provvedimento) con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) aveva comminato una sanzione pari a € 60.668.580 nei confronti di tale società (già commentato nella Newsletter).
All’origine del procedimento innanzi all’AGCM vi è la segnalazione della società La Bomba s.n.c. (La Bomba), produttrice di iconici ghiaccioli inizialmente distribuiti in prevalenza sulla riviera romagnola e successivamente diffusi in varie parti del paese, in relazione alle politiche commerciali adottate da Unilever nei confronti degli esercenti (stabilimenti balneari, bar, etc.) consistenti sostanzialmente nel divieto di contestuale commercializzazione dei prodotti de La Bomba, pena la mancata applicazione di sconti, applicazione di penali o risoluzione del contratto in essere per la vendita dei prodotti Unilever (in particolare, a marchio Algida).
L’istruttoria che ne è seguita ha accertato, più in generale, un abuso di posizione dominante escludente posto in essere da Unilever nel mercato del gelato preconfezionato monodose (c.d. “da impulso”), settore in cui Unilever detiene una quota di mercato assai elevata e non paragonabile a quella dei principali concorrenti.
Le contestazioni mosse da Unilever in sede di ricorso hanno riguardato diversi profili, a partire dalla decisione dell’AGCM di rigettare gli impegni proposti dalla società nel corso del procedimento. Al riguardo, il Tar ha riconosciuto la puntuale motivazione resa dall’AGCM in merito all’esercizio di tale ampia discrezionalità in presenza di un interesse pubblico all’accertamento dell’infrazione e della gravità delle condotte attuate.
Con riferimento ai due motivi di ricorso attinenti alla definizione del mercato (dal punto di vista geografico e del prodotto), il Tar ha ritenuto, in particolare, che l’AGCM abbia correttamente tenuto conto del livello di sostituibilità dei prodotti non solo per i consumatori finali ma, soprattutto, per gli esercenti, che rappresentano la domanda del mercato di riferimento.
Il Tar è stato chiamato a pronunciarsi anche sulla riconducibilità dei concessionari alla stessa Unilever in ottica antitrust; infatti, secondo la ricostruzione effettuata dall’AGCM, Unilever disporrebbe di una rete di 150 concessionari (distributori all’ingrosso), operanti in regime di esclusiva bilaterale indeterminata e divieto di vendita attiva fuori dal territorio su cui vige tale mandato concessorio, per i quali Unilever stabilisce sconti condizionati al raggiungimento di determinate soglie di fatturato e mantenimento costante di un ampio assortimento di gelati Unilever. Pertanto, il Tar, anche richiamando testualmente un precedente europeo (sentenza del Tribunale UE dell’11 dicembre 2003, nella causa T – 66/99), non ha ritenuto sussistente l’indipendenza commerciale dei concessionari rispetto a Unilever, bensì un comportamento unitario “…nei rapporti tra una società e il suo rappresentante di commercio e tra un committente e il suo commissionario…”.
Per quanto concerne la natura asseritamente abusiva delle condotte, Unilever ha rappresentato che tale valutazione dell’AGCM fosse avvenuta in assenza di un’adeguata analisi economica e senza tenere conto di eventuali effetti pro – competitivi a bilanciamento (quanto meno parziale) di quelli anticoncorrenziali. In particolare, il Tar ha respinto le censure di Unilever che lamentava il mancato svolgimento del c.d. “test del concorrente altrettanto efficiente” (menzionato anche nella recente decisione a livello europeo sul caso Intel), sostenendo che tale circostanza non qualifica necessariamente l’istruttoria come lacunosa ed incompleta (specialmente laddove – come nel caso in commento - l’abuso sia stato implementato attraverso una serie complessa di vari comportamenti e non solo mediante una determinata politica scontistica).
Infine, in relazione alla quantificazione della sanzione, dopo aver precisato che non potesse dedursi un legittimo affidamento derivante da un precedente del 2003 dell’AGCM che inter alia aveva escluso la sussistenza di posizioni dominanti in tale settore (seppur in un contesto di mercato completamente diverso da quello attuale), il Tar ha condiviso le valutazioni dell’AGCM circa la mancata effettiva collaborazione prestata da Unilever nel corso del procedimento (tale da determinare, infatti, la mancata applicazione della minorazione della sanzione finale) e sul programma di compliance adottato dalla società, inidoneo a determinare azioni ripristinatorie nei confronti della maggioranza dei concessionari.
Filippo Alberti
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All’origine del procedimento innanzi all’AGCM vi è la segnalazione della società La Bomba s.n.c. (La Bomba), produttrice di iconici ghiaccioli inizialmente distribuiti in prevalenza sulla riviera romagnola e successivamente diffusi in varie parti del paese, in relazione alle politiche commerciali adottate da Unilever nei confronti degli esercenti (stabilimenti balneari, bar, etc.) consistenti sostanzialmente nel divieto di contestuale commercializzazione dei prodotti de La Bomba, pena la mancata applicazione di sconti, applicazione di penali o risoluzione del contratto in essere per la vendita dei prodotti Unilever (in particolare, a marchio Algida).
L’istruttoria che ne è seguita ha accertato, più in generale, un abuso di posizione dominante escludente posto in essere da Unilever nel mercato del gelato preconfezionato monodose (c.d. “da impulso”), settore in cui Unilever detiene una quota di mercato assai elevata e non paragonabile a quella dei principali concorrenti.
Le contestazioni mosse da Unilever in sede di ricorso hanno riguardato diversi profili, a partire dalla decisione dell’AGCM di rigettare gli impegni proposti dalla società nel corso del procedimento. Al riguardo, il Tar ha riconosciuto la puntuale motivazione resa dall’AGCM in merito all’esercizio di tale ampia discrezionalità in presenza di un interesse pubblico all’accertamento dell’infrazione e della gravità delle condotte attuate.
Con riferimento ai due motivi di ricorso attinenti alla definizione del mercato (dal punto di vista geografico e del prodotto), il Tar ha ritenuto, in particolare, che l’AGCM abbia correttamente tenuto conto del livello di sostituibilità dei prodotti non solo per i consumatori finali ma, soprattutto, per gli esercenti, che rappresentano la domanda del mercato di riferimento.
Il Tar è stato chiamato a pronunciarsi anche sulla riconducibilità dei concessionari alla stessa Unilever in ottica antitrust; infatti, secondo la ricostruzione effettuata dall’AGCM, Unilever disporrebbe di una rete di 150 concessionari (distributori all’ingrosso), operanti in regime di esclusiva bilaterale indeterminata e divieto di vendita attiva fuori dal territorio su cui vige tale mandato concessorio, per i quali Unilever stabilisce sconti condizionati al raggiungimento di determinate soglie di fatturato e mantenimento costante di un ampio assortimento di gelati Unilever. Pertanto, il Tar, anche richiamando testualmente un precedente europeo (sentenza del Tribunale UE dell’11 dicembre 2003, nella causa T – 66/99), non ha ritenuto sussistente l’indipendenza commerciale dei concessionari rispetto a Unilever, bensì un comportamento unitario “…nei rapporti tra una società e il suo rappresentante di commercio e tra un committente e il suo commissionario…”.
Per quanto concerne la natura asseritamente abusiva delle condotte, Unilever ha rappresentato che tale valutazione dell’AGCM fosse avvenuta in assenza di un’adeguata analisi economica e senza tenere conto di eventuali effetti pro – competitivi a bilanciamento (quanto meno parziale) di quelli anticoncorrenziali. In particolare, il Tar ha respinto le censure di Unilever che lamentava il mancato svolgimento del c.d. “test del concorrente altrettanto efficiente” (menzionato anche nella recente decisione a livello europeo sul caso Intel), sostenendo che tale circostanza non qualifica necessariamente l’istruttoria come lacunosa ed incompleta (specialmente laddove – come nel caso in commento - l’abuso sia stato implementato attraverso una serie complessa di vari comportamenti e non solo mediante una determinata politica scontistica).
Infine, in relazione alla quantificazione della sanzione, dopo aver precisato che non potesse dedursi un legittimo affidamento derivante da un precedente del 2003 dell’AGCM che inter alia aveva escluso la sussistenza di posizioni dominanti in tale settore (seppur in un contesto di mercato completamente diverso da quello attuale), il Tar ha condiviso le valutazioni dell’AGCM circa la mancata effettiva collaborazione prestata da Unilever nel corso del procedimento (tale da determinare, infatti, la mancata applicazione della minorazione della sanzione finale) e sul programma di compliance adottato dalla società, inidoneo a determinare azioni ripristinatorie nei confronti della maggioranza dei concessionari.
Filippo Alberti
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Consiglio di Stato e pratiche concordate – il Consiglio di Stato ha respinto gli appelli incidentali di Marcegaglia S.p.A., Tubosider S.p.A. e Industria Meccanica Varricchio S.p.A. con riguardo ad alcune questioni procedurali relative al procedimento a seguito del quale l’AGCM ha sanzionato le società per una pratica concordata nel mercato dei dispositivi metallici di sicurezza stradale
Con il provvedimento n. I/723 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) aveva sanzionato diverse società per una pratica concordata finalizzata a distorcere il confronto concorrenziale nel mercato della produzione di dispositivi metallici di sicurezza stradale. A seguito dei ricorsi proposti al Tar Lazio (il Tar) da alcune delle società sanzionate, il Tribunale aveva accolto parzialmente i ricorsi di Turbosider S.p.A., Marcegaglia S.p.A. e Industria Meccanica Varricchio S.p.A. (congiuntamente, le Appellanti), annullando, con identiche sentenze, il provvedimento sanzionatorio a causa delle illegittime proroghe disposte dall’AGCM nel corso del procedimento. L’AGCM ha proposto appello avverso la sentenza del Tar, mentre le appellanti hanno sollevato appello incidentale avverso i capi della sentenza che le hanno viste soccombenti, in particolare sui temi della prescrizione e della decadenza. Inoltre le Appellanti hanno riproposto anche le censure avanzate in primo grado rimaste assorbite.
Nel corso del procedimento istruttorio, aperto il 13 gennaio 2010, l’AGCM aveva disposto diverse proroghe che ne hanno allungato notevolmente la durata, posticipandone la conclusione al 28 settembre 2012. Secondo il Tar, tali proroghe sarebbero state illegittime in quanto insufficientemente e genericamente motivate dalla necessità – non riscontrata – di procedere ad ulteriori approfondimenti istruttori. A seguito di tale valutazione, il giudice di prime cure aveva annullato in toto il provvedimento sanzionatorio.
Sul punto, il Consiglio di Stato (CdS) ha riformato la sentenza del Tar per due ordini di ragioni: in primo luogo, ha rilevato come la normativa sul ritardo dei provvedimenti amministrativi non permetta in genere di ritenere invalido l’atto tardivo. Di conseguenza dunque, nel caso di specie, non essendovi un termine perentorio per la conclusione del procedimento antitrust, la conseguenza giuridica dell’illegittimità delle deroghe e del conseguente ritardo del provvedimento non poteva essere l’invalidità dell’atto, bensì una possibile forma di responsabilità risarcitoria da parte dell’Amministrazione. In secondo luogo, il CdS ha rilevato come le proroghe sarebbero state in realtà appropriate, poiché hanno permesso alle imprese di integrare il contraddittorio, effettuare accessi ai documenti ed esercitare in maniera più esaustiva il diritto di difesa.
Le Appellanti, con gli appelli incidentali, hanno a loro volta contestato il decorso del termine di prescrizione quinquennale dal compimento della violazione (cessata in questo caso nel 2007). Il CdS ha però ritenuto infondato il gravame, poiché non ha tenuto conto dell’effetto interruttivo realizzatosi con la trasmissione dell’atto di avvio del procedimento il quale, contenendo la contestazione dell’addebito, è idoneo a interrompere il periodo di prescrizione. Con ulteriore gravame inoltre, le appellanti hanno contestato l’avvenuta decadenza per via dello scadere del termine perentorio di 90 giorni previsto per la contestazione dell’addebito. Il CdS ha rilevato tuttavia che, sebbene l’apertura del procedimento sia avvenuta 94 giorni dopo la notizia della violazione, tale termine non vada contato a partire dalla mera notizia del fatto, bensì dalla piena conoscenza della condotta illecita, implicante il riscontro della sussistenza dell’infrazione in tutti i suoi elementi, nonché dei suoi effetti. Nel caso di specie, per via della complessità del procedimento, deve ritenersi secondo il CdS che una parte consistente dei 94 giorni in oggetto sia stata impiegata per lo svolgimento della pre-istruttoria, il che giustificherebbe i giorni in eccesso.
Da ultimo, sul piano istruttorio, le Appellanti avevano lamentato che l’AGCM avrebbe utilizzato illegittimamente alcune intercettazioni effettuate nell’ambito del processo penale, trasmesse dall’autorità giudiziaria. Sul motivo, ritenuto infondato, il CdS ha sottolineato come non vi siano limiti all’utilizzo a fini istruttori, in un procedimento antitrust, di prove raccolte in un processo penale, a condizione che: (i) le prove siano state acquisite legittimamente secondo le regole di rito del procedimento in cui sono state raccolte, (ii) sia salvaguardato il diritto di difesa e (iii) il materiale probatorio formatosi aliunde sia valutato in maniera autonoma. Nel caso di specie, il CdS ha rilevato come la trasmissione fosse stata autorizzata dalla Procura e che, secondo giurisprudenza consolidata, le intercettazioni possono essere utilizzate a fini probatori in un procedimento esterno se sono state legittimamente acquisite nel procedimento penale, come è avvenuto nel caso di specie. Con ulteriore motivo inoltre, Marcegaglia S.p.A. aveva chiesto di essere esclusa dal procedimento poiché nel 2004 ha venduto il ramo d’azienda in oggetto ad una sua controllata. Tuttavia, il CdS ha rigettato il motivo poiché la società, controllante al 100%, non ha superato la presunzione secondo cui, in caso di controllo totalitario o quasi totalitario, la società controllante e la controllata agiscono come un’unica entità economica, situazione che sarebbe confermata dalle circostanze di fatto.
Per i motivi esposti dunque, il Consiglio di Stato ha accolto l’appello principale e rigettato gli appelli incidentali, riformando le sentenze del Tar in oggetto.
Leonardo Stiz
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Nel corso del procedimento istruttorio, aperto il 13 gennaio 2010, l’AGCM aveva disposto diverse proroghe che ne hanno allungato notevolmente la durata, posticipandone la conclusione al 28 settembre 2012. Secondo il Tar, tali proroghe sarebbero state illegittime in quanto insufficientemente e genericamente motivate dalla necessità – non riscontrata – di procedere ad ulteriori approfondimenti istruttori. A seguito di tale valutazione, il giudice di prime cure aveva annullato in toto il provvedimento sanzionatorio.
Sul punto, il Consiglio di Stato (CdS) ha riformato la sentenza del Tar per due ordini di ragioni: in primo luogo, ha rilevato come la normativa sul ritardo dei provvedimenti amministrativi non permetta in genere di ritenere invalido l’atto tardivo. Di conseguenza dunque, nel caso di specie, non essendovi un termine perentorio per la conclusione del procedimento antitrust, la conseguenza giuridica dell’illegittimità delle deroghe e del conseguente ritardo del provvedimento non poteva essere l’invalidità dell’atto, bensì una possibile forma di responsabilità risarcitoria da parte dell’Amministrazione. In secondo luogo, il CdS ha rilevato come le proroghe sarebbero state in realtà appropriate, poiché hanno permesso alle imprese di integrare il contraddittorio, effettuare accessi ai documenti ed esercitare in maniera più esaustiva il diritto di difesa.
Le Appellanti, con gli appelli incidentali, hanno a loro volta contestato il decorso del termine di prescrizione quinquennale dal compimento della violazione (cessata in questo caso nel 2007). Il CdS ha però ritenuto infondato il gravame, poiché non ha tenuto conto dell’effetto interruttivo realizzatosi con la trasmissione dell’atto di avvio del procedimento il quale, contenendo la contestazione dell’addebito, è idoneo a interrompere il periodo di prescrizione. Con ulteriore gravame inoltre, le appellanti hanno contestato l’avvenuta decadenza per via dello scadere del termine perentorio di 90 giorni previsto per la contestazione dell’addebito. Il CdS ha rilevato tuttavia che, sebbene l’apertura del procedimento sia avvenuta 94 giorni dopo la notizia della violazione, tale termine non vada contato a partire dalla mera notizia del fatto, bensì dalla piena conoscenza della condotta illecita, implicante il riscontro della sussistenza dell’infrazione in tutti i suoi elementi, nonché dei suoi effetti. Nel caso di specie, per via della complessità del procedimento, deve ritenersi secondo il CdS che una parte consistente dei 94 giorni in oggetto sia stata impiegata per lo svolgimento della pre-istruttoria, il che giustificherebbe i giorni in eccesso.
Da ultimo, sul piano istruttorio, le Appellanti avevano lamentato che l’AGCM avrebbe utilizzato illegittimamente alcune intercettazioni effettuate nell’ambito del processo penale, trasmesse dall’autorità giudiziaria. Sul motivo, ritenuto infondato, il CdS ha sottolineato come non vi siano limiti all’utilizzo a fini istruttori, in un procedimento antitrust, di prove raccolte in un processo penale, a condizione che: (i) le prove siano state acquisite legittimamente secondo le regole di rito del procedimento in cui sono state raccolte, (ii) sia salvaguardato il diritto di difesa e (iii) il materiale probatorio formatosi aliunde sia valutato in maniera autonoma. Nel caso di specie, il CdS ha rilevato come la trasmissione fosse stata autorizzata dalla Procura e che, secondo giurisprudenza consolidata, le intercettazioni possono essere utilizzate a fini probatori in un procedimento esterno se sono state legittimamente acquisite nel procedimento penale, come è avvenuto nel caso di specie. Con ulteriore motivo inoltre, Marcegaglia S.p.A. aveva chiesto di essere esclusa dal procedimento poiché nel 2004 ha venduto il ramo d’azienda in oggetto ad una sua controllata. Tuttavia, il CdS ha rigettato il motivo poiché la società, controllante al 100%, non ha superato la presunzione secondo cui, in caso di controllo totalitario o quasi totalitario, la società controllante e la controllata agiscono come un’unica entità economica, situazione che sarebbe confermata dalle circostanze di fatto.
Per i motivi esposti dunque, il Consiglio di Stato ha accolto l’appello principale e rigettato gli appelli incidentali, riformando le sentenze del Tar in oggetto.
Leonardo Stiz
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Legal News / Concorrenza sleale – Il Tribunale di Milano si pronuncia in punto di sottrazione di informazioni commerciali segrete, storno di dipendenti e sviamento di clientela
Con l’ordinanza dello scorso 21 maggio il Tribunale di Milano ha rigettato per carenza di fumus (ossia della probabile esistenza della situazione sostanziale che si intente tutelare) le domande proposte in via d’urgenza da un’impresa attiva nella produzione e commercializzazione di materiali per odontoiatri volte ad inibire gli atti di concorrenza sleale asseritamente posti in essere da un’impresa concorrente. Il Tribunale, ha ritenuto che non fossero ravvisabili i profili di storno di agenti illecito e che non vi fosse un quadro probatorio sufficiente circa i lamentati profili di sviamento di clientela e sottrazione di segreti industriali.
In via preliminare il giudice di prime cure ha verificato la sussistenza di un rapporto di concorrenza tra le imprese parti del giudizio, affermando, un po’ contraddittoriamente a dire il vero, l’esistenza di un simile rapporto nella misura in cui i rispettivi prodotti (impianti ed apparecchiature odontoiatriche), pur non “direttamente sostituibili tra loro … [vengono impiegati] sul paziente alternativamente … in quanto destinati alla stessa funzione [e vengono] offerti sul mercato ai singoli operatori attraverso un’analoga rete di agenti”.
Quanto al lamentato storno di agenti, il giudice ha dapprima passato al vaglio i diversi presupposti di uno storno illegittimo (ossia, a suo dire, la violazione della disciplina gius-lavoristica ovvero di diritti assoluti del concorrente, le modalità della condotta – tali da essere potenzialmente rischiose per la continuità aziendale del concorrente e l’imprevedibilità e non ri-assorbibilità delle alterazioni provocate dalla condotta censurata) per affermare che la distinzione tra la natura lecita dello storno di dipendenti e la concorrenza sleale sul piano oggettivo va guardata alla luce “…dell’intensità lesiva della condotta, alla luce tra l’altro del numero degli stornati, del loro grado di fungibilità e della tempistica dello sviamento al fine di verificare se le modalità impiegate abbiamo messo a rischio la continuità aziendale dell’imprenditore nella sua capacità competitiva…”. Nel caso di specie tali indici sono stati ritenuti insussistenti in quanto lo storno complessivo appariva numericamente irrilevante (3 agenti) e mancava l’allegazione di una loro non facile sostituibilità.
Quanto alla sottrazione di informazioni commercialmente riservate: in relazione alla lista clienti il Tribunale ha rilevato la sua (apparentemente) facile acquisizione attraverso elenchi o banche dati liberamente acquisibili sul mercato senza costi; per quanto concerne invece le condizioni economiche praticate ed ai prezzi di fornitura, pur trattandosi di dati sensibili e riservati, il Tribunale ha (sorprendentemente) ritenuto che essi potevano essere comunque ottenuti dagli stessi clienti in sede di offerta negoziale o sulla base di pregressi rapporti. Pertanto, sarebbero serviti indagini istruttorie ampie al fine di verificare su larga scala se fossero state “…spese in via anticipata dagli ex agenti le informazioni sui prezzi praticati al di là dei rapporti personali o pregressi…”.
Sulla censura mossa in merito alle condotte denigratorie, venivano infine censurati alcuni episodi in cui erano state diffuse dichiarazioni in cui al contenuto informativo era stata accostata una componente valutativa che avrebbe screditato la parte attrice agli occhi dei clienti. Tuttavia, per il Tribunale, agli atti mancava la prova della diffusione della notizia screditante, ossia un elemento costitutivo della fattispecie.
In ultimo, in punto di sviamento della clientela, si lamentava un patologico esodo di un numero rilevante di clienti, sostenendo che tale effetto fosse la conseguenza di un illecito impiego di informazioni commerciali segrete e della prosecuzione del rapporto con i singoli clienti da parte degli ex agenti. Tuttavia, di nuovo, il tribunale ha rilevato che vi fosse un quadro probatorio limitato che non consentiva di inferire l’impiego di modalità scorrette ovvero il sistematico contatto della clientela da parte degli agenti in questione, per cui non poteva essere predicata alcuna illiceità anche sotto tale profilo.
In conclusione, l’ordinanza in commento ribadisce la necessità per parte attrice di avere a propria disposizione consistenti sostegni probatori per l’istruzione di una controversia in materia di concorrenza sleale nella forma di storno di dipendenti, sviamento di clientela e sottrazione di informazioni commercialmente sensibili al fine di soddisfare il proprio onere probatorio, anche in sede cautelare d’urgenza.
Cecilia Carli
In via preliminare il giudice di prime cure ha verificato la sussistenza di un rapporto di concorrenza tra le imprese parti del giudizio, affermando, un po’ contraddittoriamente a dire il vero, l’esistenza di un simile rapporto nella misura in cui i rispettivi prodotti (impianti ed apparecchiature odontoiatriche), pur non “direttamente sostituibili tra loro … [vengono impiegati] sul paziente alternativamente … in quanto destinati alla stessa funzione [e vengono] offerti sul mercato ai singoli operatori attraverso un’analoga rete di agenti”.
Quanto al lamentato storno di agenti, il giudice ha dapprima passato al vaglio i diversi presupposti di uno storno illegittimo (ossia, a suo dire, la violazione della disciplina gius-lavoristica ovvero di diritti assoluti del concorrente, le modalità della condotta – tali da essere potenzialmente rischiose per la continuità aziendale del concorrente e l’imprevedibilità e non ri-assorbibilità delle alterazioni provocate dalla condotta censurata) per affermare che la distinzione tra la natura lecita dello storno di dipendenti e la concorrenza sleale sul piano oggettivo va guardata alla luce “…dell’intensità lesiva della condotta, alla luce tra l’altro del numero degli stornati, del loro grado di fungibilità e della tempistica dello sviamento al fine di verificare se le modalità impiegate abbiamo messo a rischio la continuità aziendale dell’imprenditore nella sua capacità competitiva…”. Nel caso di specie tali indici sono stati ritenuti insussistenti in quanto lo storno complessivo appariva numericamente irrilevante (3 agenti) e mancava l’allegazione di una loro non facile sostituibilità.
Quanto alla sottrazione di informazioni commercialmente riservate: in relazione alla lista clienti il Tribunale ha rilevato la sua (apparentemente) facile acquisizione attraverso elenchi o banche dati liberamente acquisibili sul mercato senza costi; per quanto concerne invece le condizioni economiche praticate ed ai prezzi di fornitura, pur trattandosi di dati sensibili e riservati, il Tribunale ha (sorprendentemente) ritenuto che essi potevano essere comunque ottenuti dagli stessi clienti in sede di offerta negoziale o sulla base di pregressi rapporti. Pertanto, sarebbero serviti indagini istruttorie ampie al fine di verificare su larga scala se fossero state “…spese in via anticipata dagli ex agenti le informazioni sui prezzi praticati al di là dei rapporti personali o pregressi…”.
Sulla censura mossa in merito alle condotte denigratorie, venivano infine censurati alcuni episodi in cui erano state diffuse dichiarazioni in cui al contenuto informativo era stata accostata una componente valutativa che avrebbe screditato la parte attrice agli occhi dei clienti. Tuttavia, per il Tribunale, agli atti mancava la prova della diffusione della notizia screditante, ossia un elemento costitutivo della fattispecie.
In ultimo, in punto di sviamento della clientela, si lamentava un patologico esodo di un numero rilevante di clienti, sostenendo che tale effetto fosse la conseguenza di un illecito impiego di informazioni commerciali segrete e della prosecuzione del rapporto con i singoli clienti da parte degli ex agenti. Tuttavia, di nuovo, il tribunale ha rilevato che vi fosse un quadro probatorio limitato che non consentiva di inferire l’impiego di modalità scorrette ovvero il sistematico contatto della clientela da parte degli agenti in questione, per cui non poteva essere predicata alcuna illiceità anche sotto tale profilo.
In conclusione, l’ordinanza in commento ribadisce la necessità per parte attrice di avere a propria disposizione consistenti sostegni probatori per l’istruzione di una controversia in materia di concorrenza sleale nella forma di storno di dipendenti, sviamento di clientela e sottrazione di informazioni commercialmente sensibili al fine di soddisfare il proprio onere probatorio, anche in sede cautelare d’urgenza.
Cecilia Carli